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Belle a tutti i costi

Come moda comanda

Sneakers, frangetta, tacchi e tatuaggi. Gli adolescenti stanno diventando oggetti di consumo.

Il motto? «Divento come mi vuoi, in modo che tu scelga di comprarmi». Cronaca di un disastro educativo

 

Riproduzione  parziale dal n. 150 di "Noi, genitori & figli" del 27/03/2011

di Nicoletta Martinelli

Quando il professor Landi ha chiesto ai suoi studenti se si sentivano dominati o suggestionati o - almeno — indirizzati dalla pubblicità, nell'aula universitaria è stato un unico coro: no, certo che no!  Un tantino risentiti dall'esser scambiali per sempliciotti, di quelli che si lasciano abbindolare dai consigli per gli acquisti, i giovanotti — oggi bamboccioni, domani classe dirigente — hanno dovuto rispondere a un'ultima domanda: che scarpe avete ai piedi?, insiste il professore. Che la risposta la sa già. Per diciotto anni si è occupato della pubblicità del gruppo Benetton, oggi è direttore marketing di Coin: Paolo Landi sa - anche senza abbassare lo sguardo — che i suoi studenti hanno ai piedi solo sneakers, tutte sfornate dagli stessi due o tre produttori. Se non le hai, sei out. Perché le tue scarpe parlano di te ben prima che tu abbia aperto bocca. E non solo le scarpe: scegliendo la gonna o i pantaloni, i jeans o il gessato, la polo o la cravatta, un colore piuttosto di un altro prendiamo posizione. Pescare dall'armadio — e prima ancora comperare in negozio — è un'operazione culturale e neppure tra le più banali: attraverso l'abbigliamento definiamo la nostra identità e ci presentiamo al mondo. E invece di vestirci possiamo anche travestirci: capita - succede soprattutto ai giovani - quando è più importante farsi accettare dal gruppo che affermare la propria unicità. Rientrare in uno schema, replicare un modello, rende più facile la vita di tutti. È meno faticoso affrontare il prossimo quando posso riconoscerlo, incasellarlo e catalogarlo al primo sguardo: se quel che indossi mi parla di te, mi basterà un'occhiata per sapere come parlarti. «I ragazzi sono sempre più omologati, sempre meno disposti a rompere con gli schemi, a cantare fuori dal coro? Per forza, in una società, come la nostra, che privilegia il consumo — spiega Landi — quel che importa è la forma, non la sostanza. Siamo quello che acquistiamo, quello che consumiamo. Possibilmente in massa».

Tutto si può comperare, anche l'aspetto fisico che non abbiamo avuto in dote dalla natura: e se un tempo si entrava nell'adolescenza a bordo del motorino ottenuto per la promozione, oggi le ragazze festeggiano il compleanno al centro estetico. Il ritocchino - non basta la massaggiatrice, ci vuole il chirurgo - arriverà, magari per i diciott'anni o insieme al diploma.

Dalle unghie in giù (e in su) quel che si vuole si ottiene aprendo il portafoglio e diventa sempre più facile corrispondere al modello che va per la maggiore. Ma ogni medaglia ha il suo risvolto: «Siamo disposti a consumare ma anche a diventare oggetti di consumo. Divento come tu mi vuoi - prosegue Paolo Landi — in modo che tu mi scelga, che tu decida di comprarmi». L'idea è stata registrata da tempo dal linguaggio comune: chi «sa vendersi bene» è chi ottiene quel che vuole, chi riesce là dove altri — a parità di meriti e abilità - sono stati scartati. «Il vero problema - riprende Landi - è che il modello proposto, a cui ci si uniforma, è quello televisivo. Vorrei che fosse solo un banale stereotipo ma, purtroppo, si guarda ancora e sempre alla veline e a calciatori come esempi di successo. Con l'aggravante che, oggi, sono anche i genitori a considerare sottoscrivibile questo genere di aspirazione. Incoraggiano i figli invece di dissuaderli». Le generazioni digitali che si sperava si affrancassero dagli schemi imposti dalla tivù ne sono ancora schiave: «Prova ne è che i video postati su youtube - conclude Landi - replicano il codice espressivo degli spot, fanno il verso ai reality e ai talent show. Siamo tutti fan di Amici». Insomma, da grandi i nostri piccoli sognano di fare la showgirl. «Comprensibile. I giovani, le ragazze in questo caso, sono cinicamente realistici. Del resto i fatti dimostrano che l'istruzione non ha rilievo, che il lavoro non arriva neanche con la laurea e che, comunque, a parità di preparazione un bell'aspetto aiuta»: Alessandra Castellani - antropologa, esperta di culture giovanili, al centro di numerosi suoi libri - confessa di aver esaurito la propria dose di ottimismo. E racconta: «Qualche sera fa ero alla Stazione Termini, a Roma, dove si esibiva un amico musicista. Ho adocchiato un gruppo di ragazze, molto giovani, vestite in un modo che definirei, eufemisticamente, scosciato. Il mio sguardo di donna matura le ha subito catalogate. Sono escort, ho pensato. Invece — spiega Castellani — erano le invitate di una festa di compleanno tra ragazzini». Il che dimostra che la malizia è nell'occhio di chi guarda: «Piuttosto dimostra che, in questo caso, lo sguardo dell'osservatore è influenzato dalla sua età anagrafica. Se su mille ragazzine, cinquecento si vestono così significa che non è il richiamo sessuale quello a cui puntano. Sarebbe miope un giudizio simile. Le ragazzine vogliono solo essere alla moda, seguono il gusto di quest'epoca». Che propone - secondo la definizione dell'antropologa - un'«ipertrofìca interpretazione della donna muliebre»: zone erogene esasperatamente in primo piano. La moda si ispira agli anni Cinquanta riproponendo guepierre e reggicalze, corsetti, pancere e reggiseni rinforzati che il femminismo aveva aborrito (e abolito). E non è uno spirito trasgressivo ad animare un tale fiorire di biancheria ma, semmai, restaurativo: l'identità femminile torna a essere legata all'immagine del corpo, e del corpo provocante, rotondo (solo nei punti giusti) e frivolo. Una disfatta.

«Tutto ciò si coniuga in modo abnorme con le conquiste delle donne, è il frutto amaro degli anni Settanta e Ottanta. Oggi - prosegue Castellani - le ragazze sono libere di fare certe scelte, per esempio nella sfera sessuale, ma in realtà sono talmente prive di strumenti di potere che quella libertà è solo un'illusione». Di ragazzotte è piena la tivù, donnine decorative destinate costantemente a fare da spalla. Nei luoghi di potere è il deserto: un'indagine di Assonime, l'Associazione delle Società per azioni, mette nero su bianco il fallimento: su un totale di 2.815 consiglieri sono solo 169 le donne che siedono nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. ♦

 

PIANETA IMMAGINE

di Viviana Dalosio

Vogliono dimagrire, e non basta mai. Vogliono corpi da dèi, muscoli e curve, addominali. Vogliono assomigliare ai divi della tv, costi quel che costi, non importano i soldi spesi, i trucchi, i ritocchi persino. Tolti i "bravi ragazzi" che ne fanno a meno - e ce ne sono, di certo, ma al caro prezzo dei giudizi impietosi e delle prese in giro dei compagni - un solo sguardo per strada o nelle scuole basta a dir tutto, sugli adolescenti d'oggi: il culto dell'immagine li ha colonizzati. E, ciò che più conta, li sta cambiando. Ma quando è successo? Come si è arrivati alla distorta dittatura del corpo che impazza tra i giovani e di cui da qualche mese s'è accorto il Paese, sulla scia degli scandali che hanno coinvolto la politica, il mondo della cultura e della televisione, fino a entrare nelle nostre case?

Le ricerche parlano chiaro: l'età media in cui si manifestano i primi sintomi della dismorfobia (la paura di essere brutti) è scesa agli 11 anni, con 8 ragazzini su 10 che pensano già a quest'età di dover dimagrire, il 33% che usa già stabilmente prodotti di bellezza, frequenta profumerie e beauty center, il 16% delle ragazze a dieta anche se non ne avrebbero bisogno. E ampliando la forbice dai 12 ai 19 anni, nel 2010 un'indagine dell'Eurispes insieme a Telefono azzurro ha fotografato anche di peggio: vale a dire, il 19,9% dei ragazzi e il 10,4 delle ragazze con il piercing, il 7% con un tatuaggio e il 5,3% con un intervento di chirurgia estetica alle spalle (percentuale tanto piccola quanto allarmante, considerando l'età del campione preso in esame). Ma tra la tirannide del corpo e gli adolescenti si può tirare anche il filo dei social network, dei "profili" ormai connaturati alle nuove tecnologie, per cui oltre il 70% dei ragazzi vive ormai diviso tra un'identità reale e un "avatar" virtuale, dotato di tratti idealizzati, con cui si instaurano relazioni online, con cui ci si confonde e ci si maschera, fingendo d'essere diversi da quello che si è.

L'impressione è che gli adolescenti siano drammaticamente in balia di esempi sbagliati, d'una corrente materialista che riconosce come legge solo l'apparenza e si nutre dell'idea che per emergere e far successo nella vita basti "mostrare", essere belli, appetibili, in linea con la moda. Ma c'è di più, visto che innanzi a alla piaga del "piacere a tutti i costi" anche i genitori e gli educatori sempre più spesso non sanno come comportarsi, dividendosi tra l'indifferenza del "chiudo un occhio" al giustificazionismo del "sono solo ragazzi", fino alla rassegnazione e al senso di impotenza. Cambiare le cose si può e si deve, armandosi di strumenti di comprensione e di nuovo coraggio educativo.